Descrizione
Dopo aver proposto qualche giorno fa la storica introduzione di Evola a “Crisi del mondo moderno” di Guénon nella prima, inedita versione del 1937, oggi proponiamo un altro documento altamente indicativo del radicale cambio di veduta di Evola nei confronti del maestro di Blois: si tratta della seconda recensione a “L’Uomo ed il suo divenire secondo il Vedanta”: questa edizione, che apparve sulla rivista mensile “Bibliografia fascista” nell’aprile 1938 (da notare, ancora una volta, come Evola tentasse in quegli anni di presentare la figura di Guénon su organi di stampa e riviste di natura strettamente politica o comunque legati al contesto fascista), consente un immediato quanto interessantissimo confronto con la prima recensione del 1925, da noi proposta e commentata in due parti, che fu alla base della polemica in punta di penna scoppiata tra Evola e Guénon in quegli anni.
Inutile dire che tanto Evola era stato caustico, irriverente e sfrontato in occasione della prima recensione al “Vedanta”, in cui si era abbondantemente soffermato su particolari e dettagli della “dimensione metafisica” presentata da Guénon, per cercare di “smontarla” quasi del tutto, quanto fu invece rispettoso, attento, preciso e decisamente più essenziale nella recensione “revisionata” risalenti a tredici anni dopo, in cui il barone si mostrava ormai saldamente centrato nella corretta interpretazione della Tradizione e del dato metafisico, e di conseguenza nella valutazione dell’importanza straordinaria della figura di Guénon, senza più influenze deviatrici e “peccati” d’immaturità.
Evola cercò probabilmente, con questa seconda recensione, di rimediare all’incauto “azzardo” giovanile, ora che i rapporti con Guénon erano completamente cambiati e che la sua stessa formazione aveva raggiunto un livello di consapevolezza, di completezza e di maturazione ben diverso.
Un libro come quello che qui volentieri segnaliamo, può tanto attirare l’attenzione di un lettore serio e addestrato, quanto può esser fonte di facili malintesi per una certa categoria di critici e di intellettuali da “terza pagina”, che oscillano fra la frase fatta e varie velleità politico-spirituali. In più di una occasione abbiamo detto senza reticenze che secondo noi il Guénon è uno dei rari maestri spirituali dell’epoca moderna, di ben diversa statura che non i soliti Keyserling, Benda, Massis, Ropps, ecc.; uno dei pochi che posseggono veramente dei principii e che testimoniano di una tradizione, nel senso più alto, metafisico e superpersonale del termine, al di fuori di ogni “costruzione” filosofica, di ogni vana pretesa di “originalità”, di ogni limitazione confessionale o proselitaria. Per questo ci sentiamo portati, in occasione della traduzione di questo libro, a fare il nostro possibile per prevenire gli accennati equivoci, parlando non del libro in sé – poiché questa non ne sarebbe la sede – ma piuttosto del punto di vista dal quale esso deve essere considerato.
Diciamo dunque subito da che parte potrebbe sorgere l’equivoco principale. Uno degli aspetti dell’opera complessiva del Guénon è costituito da una critica a fondo della civiltà moderna, critica tanto più efficace e distruttiva, in quanto scevra di ogni passionalità e rigorosamente poggiata su di una disamina cruda dei fatti, degli avvenimenti e delle idee dal punto di vista dei principii propri a ogni civiltà normale, cioè tradizionale. Il libro più significativo per questo aspetto dell’attività del Guénon – “La crisi del mondo moderno” – è esso stesso uscito recentemente in una traduzione italiana, presso l’editore Hoepli. Ora, è naturale che coloro che, o consentendo, ovvero reagendo, abbiano seguito il Guénon nella sua critica, siamo curiosi di conoscere completamente la controparte positiva, cioè i valori e le dottrine da opporre a quelli del mondo moderno così aspramente giudicato e vogliamo sopratutto conoscere che sia questa “tradizione” e questo “spirito tradizionale”, su cui il Guénon tanto insiste e che egli pone come il presupposto di ogni opera veramente ricostruttiva.
Può dunque accadere, che dette persone prendano proprio a tale scopo il nuovo libro del Guénon, dato che esso riguarda appunto la dottrina e i problemi massimi relativi al significato e al destino dell’umana personalità: ma vedendo che è del Vedânta che, essenzialmente, si tratta, cioè di teorie indù, si può facilmente prevedere che cosa accadrà, in più di un caso. Si griderà: ecco l’adoratore dell’Oriente, ecco il “teosofo” e il “panteista”, ecco colui che vorrebbe gettare in mare le nostre tradizioni, il cattolicesimo e il “personalismo” occidentale per mandarci a scuola presso civiltà esotiche! E via dicendo. Con il che, la comprensione di qualcosa, il cui valore potrebbe essere difficilmente esagerato, resterebbe senz’altro pregiudicata. Di contro a ciò, son da fissare per bene i seguenti punti.
L’opera del Guénon, di cui ora stiamo parlando, rappresenta indubbiamente quanto di meglio sia stato scritto sulla metafisica indù, di cui il Vedânta può considerarsi la vena centrale e regale; non soltanto, ma si può considerare come una chiave indispensabile per chi voglia intraprendere in modo veramente serio, fuori dalle arbitrarie ricostruzioni degli orientalisti ufficiali, dei filologi o dei “teosofi”, lo studio delle tradizioni orientali in genere, studio richiedente tutt’altri presupposti che non quelli propri alla “filosofia” occidentale.
Ma, scrivendo quel libro, il Guénon non si è voluto limitare a tanto. Partendo dal presupposto, che le varie tradizioni e religioni apparse nella storia, in quanto esse presentano di veramente valido e di superpersonale, altro non sono che espressioni varie di un unico sapere, egli si è servito delle teorie del Vedânta alla stessa guisa che chi conosce perfettamente varie lingue, può sceglierne una per esprimere idee, facilmente suscettibili a esser espresse anche in altri idiomi. Ecco dunque che già con ciò le paure e gli scatti delle persone, di cui dicevamo poc’anzi, di fronte ai riferimenti “orientali” del Guénon si dimostrano privi di ogni seria ragione e procedenti assai meno dalla intellettualità che non dalla sensibilità. E il Guénon d’altra parte, nel corso del suo libro, non manca di moltiplicare esempi, dimostranti la concordanza fra la tradizione indù e altre tradizioni, anche occidentali, circa i punti fondamentali della dottrina.
Si potrebbe tuttavia chiedere perchè, la scelta essendo dunque indifferente, il Guénon, per dare un esempio generico del modo “tradizionale” di considerare il mondo, l’uomo e il suo divenire, abbia proprio messo mano al Vedânta, semprechè la sua mira sia stata di indicare una controparte positiva e costruttiva della sua critica contro il mondo moderno e contro le sue concezione puramente “profane”. Si potrebbe obbiettare, che una tale scelta è almeno poco opportuna, per chi abbia la capacità di porsi anche dal punto di vista del pubblico e consideri i mezzi più adatti per raggiungere il proprio fine. L’obbiezione è giusta, se si parla di “opportunità” nel senso più volgare e immediato. Senza dubbio se il Guénon, come base, invece del Vedânta, avesse assunto insegnamenti medievali, o ermetici, di appigli gli spiriti malintenzionati o impreparati ne avrebbero trovati di meno. Da un altro punto di vista le cose stanno però altrimenti.
In primo luogo, secondo il Guénon, non bisogna farsi illusioni sul seguente punto: che, come mentalità, l’Occidente moderno non è più lontano dall’Oriente di quel che non sia dallo stesso Occidente antico e tradizionale. Nella loro essenza vera, gli insegnamenti dell’antico Occidente sono divenuti per l’uomo moderno, e non da oggi, una cosa così lontana, quanto quelli dell’”esotico” Oriente, apparentati ai primi da uno stesso carattere tradizionale, gerarchico, metafisico, antirazionalista e antiindividualista. Di fronte ai casi “cronici” di incomprensione, non vi è dunque da sperare che, assumendo una “base” occidentale antica per l’esposizione della stessa dottrina, il Guénon avrebbe avuto assai più da guadagnare.
Vi è poi una seconda ragione. Delle cause varie, che qui non possono essere esaminate, han fatto si che gli insegnamenti tradizionali siano apparsi nella tradizione centrale dell’Occidente non in uno stato puro e metafisico, bensì in una adattazione sopratutto “religiosa”. Per cui, a voler “parlare” attraverso la lingua della tradizione occidentale senza perdere livello, si imporrebbe un lavoro abbastanza complesso di “integrazione” e di interpretazione “esoterica” (Dante e S. Tommaso direbbero: “anagogica”) non scevro di pericoli pratici: sopratutto nel pericolo di provocare una levata di scudi da parte di coloro che da noi si dicono volentieri “tradizionalisti” e che, scambiando l’essenziale con l’”accessorio”, volentieri crederebbero a un tentativo di falsare o “violare” o snaturare la loro tradizione. E basta avere un senso degli orizzonti mentali propri ai tradizionalisti cattolici “intellettuali” tipo per esempio Papini, Manacorda, Bergellini, Comi, ecc., per rendersi conto, che un tale pericolo sarebbe fin troppo reale e che le “reazioni”, in un tale caso, non sarebbero minori di quelle anti-orientali…
Nello sfidare queste ultime, si ha almeno il vantaggio di poter presentare un sistema a suo modo compiuto, non bisognoso, per una diretta comprensione metafisica, di ausili estranei. Non bisogna dimenticare che il Guénon scrive sempre per una élite e che è sua persuasione, che solo riprendendo contatto con le conoscenze tradizionali allo stato puro, inattenuato, originario, si può superare sia l’irrigidimento cadaverico di forme esaurite e abbandonate dal loro spirito, sia il pervertimento di quelle nuove e “moderne”, tanto da venire a un rivolgimento davvero (nel senso buono) rivoluzionario. “Religione”, per lui, è troppo poco. Tutto, nelle religioni, è vero – ma nella forma di simboli, di personificazioni, di punti d’appoggio per facoltà che, come quelle del sentimento o della religione teologizzante, non sono certo le supreme. Ma tutto ciò che nelle tradizioni di tipo “religioso” si trova esposto in sede di fede, di dogma e di teologia, nelle tradizioni di tipo metafisico assume significato di evidenza superrazionale, di conoscenza trascendente, di “essere” e, naturalmente, su tale piano gli stessi principii possono avere una ben altra portata e condurre a orizzonti difficilmente raggiungibili mediante l’altra via: tutto ciò, e nella più stretta relazione con i problemi spirituali del nostro tempo, è stato magistralmente esposto dal Guénon nella sua altra opera, sulla crisi moderna, nei capitoli conclusivi.
Per questa ragione, il Guénon ha scelto la “lingua” propria al Vedânta, tradizione essenzialmente metafisica, almeno in questo libro (in altri, egli ha trattato della vera dottrina di Dante, di S. Bernardo, della spiritualità segreta racchiusa in certe correnti medievali, ecc.). Ciò gli offre la possibilità di venire, nei riguardi della conoscenza dell’uomo, della sua natura e del suo vario destino, a punti veramente illuminanti, che spazzano di colpo tanti falsi problemi e tante inani costruzioni delle filosofie profane. Tutto è restituito, qui, a una sfera di grandezza, di sicurezza incomparabile e di trasparenza quasi olimpica. Tutto è adombrato dalla sensazione dell’infinito e dell’eterno, al di là sia di “panteismo” che di “personalismo”. La distruzione delle piccole visuali del piccolo “io” è il primo risultato. Misteriosi contatti cosmici vengono ristabiliti. Sorge il presentimento di esser venuti qui da lontano, per procedere verso nuove lontananze, attraverso stati multipli di coscienza, in una vicenda, in cui la morte diviene un episodio quasi insignificante e la “vita”, come la si concepisce comunemente, con le sue febbri e le sue agitazioni, appare paragonabile a un viaggio nelle ore della notte.
Lo scopo e le vie della vera “liberazione” sono date in una oggettività quasi matematica. In tutto ciò, ripetiamolo, giacchè è l’essenziale, non si tratta di una teoria filosofica: è un sapere primordiale che parla e che nel Guénon ha trovato un espositore fedele e impersonale. E chi giunge a “realizzare”, che è di questo che si tratta, non potrà che sorridere di fronte a quanti impugnano il mito dell’Oriente ovvero dell’Occidente, poichè egli sa i termini della vera antitesi: da un lato, l’ignoranza profana, con le sue varie appendici mentali e sentimentali e con le sue presunzioni; dall’altra, i portatori della conoscenza, che un fronte unico unisce invisibilmente, anche quando essi non lo sospettino e diano tutte le loro forze per il trionfo dello spirito nell’àmbito di un dato popolo e di una data civiltà.